Prima di proseguire nelle varie fasi della costruzione del nostro cabinato Raspberry Pi, è utile soffermarsi nuovamente sulla storia di questi apparecchi che hanno caratterizzato le sale giochi anni ’80/’90. Iniziamo subito dicendo che allestire una sala giochi comportava un grande dispendio di risorse, sia a livello economico, sia a livello di organizzazione e assistenza. Nonostante fossero apparentemente solidi e dall’aria “monolitica”, la circuiteria interna di questi apparecchi poteva rivelarsi molto fragile e scarsamente affidabile, se affidata a mani inesperte. Ma perché quello che sembrava un divertimento, nascondeva in realtà così tante insidie? Facciamo un passo indietro per chiarirci le idee.
Nei primi anni ’80 le cose erano enormemente complesse: ogni produttore di videogiochi arcade, infatti, era solito realizzare cabinati con cablaggi dedicati. Con il termine “dedicato” si intende il cablaggio di un mobile arcade espressamente concepito per un unico titolo. Non esisteva l’idea di un dispositivo nel quale poter cambiare le varie schede di gioco, perché la casa madre pensava a monetizzare vendendo di volta in volta il prodotto finito, con tutti gli annessi e i connessi. A gravare sulle tasche di noleggiatori di cabinati e gestori di sale giochi, c’era soprattutto l’aspetto legato al contrasto della pirateria. Capitava spesso, infatti, che produttori come Konami, SEGA, Taito e quant’altro, resisi conto che i loro cablaggi erano stati clonati, non esitavano a cambiare le carte in tavola senza preavviso alcuno. Il risultato catastrofico era fonte di enormi mal di testa per i professionisti del settore: non c’era mai un cablaggio uguale non solo tra i vari produttori, ma spesso anche tra giochi diversi di uno stesso brand.
Al giorno d’oggi abbiamo tutta una serie di standard come l’USB o il SATA che semplificano enormemente il lavoro, ma Immaginatevi cosa possa voler dire per un’azienda di noleggio o per il gestore di una sala giochi, il dover far fronte a continui cambiamenti di specifiche. La mancanza di un’interfaccia standard comportava continue nottate di lavoro per cercare di capire le varie differenze, realizzare adattatori e cercare di rimanere al passo con le varie modifiche implementate. Se siete tra coloro che considerano troppo elevato il prezzo di una console moderna, sappiate che questi cabinati venivano venduti a prezzi da capogiro: il cabinato di Sega Rally, ad esempio, costava trenta milioni delle vecchie lire. Se vi sembrano tanti e non lo avete mai visto, beh, eccolo qui sotto:
Diciamo che quello di Sega Rally è stato uno dei più iconici, ma se volete capire realmente quali fossero le potenzialità (e i costi) di gestione di questi apparecchi, non possiamo fare a meno di citarvi il SEGA R360:
Parliamo di un “ragazzone” che necessitava praticamente di una stanza solo per lui, oltre che di un addetto che si occupava costantemente del suo funzionamento. Il giocatore si sedeva all’interno della capsula che iniziava a muoversi e a girare avanti e indietro. A livello di gioco, una partita durava un minuto circa, in modo tale da scongiurare nausee e altri effetti collaterali.
Stiamo parlando dei massimi livelli che un arcade videogame dell’epoca potesse concepire. Il livello di immersività era di gran lunga superiore a quello di qualsiasi periferica di I/O moderna. Dimensioni a parte, i costi erano proibitivi e la manutenzione di dispositivi del genere era molto frequente a causa degli organi meccanici costantemente in movimento. Capite che una sala giochi era composta da decine di cabinati e, senza uno standard valido, i costi di gestione divennero presto proibitivi.
Lo standard JAMMA
Per far fronte all’escalation dei costi, tra il 1986 e il 1987 si formò in Giappone la Japan Amusement Machinery Manufacturers Association o, più comunemente, JAMMA. Quest’associazione di produttori di videogiochi arcade mise a punto uno standard a 28 pin inerente alla piedinatura dei connettori presenti sulla scheda madre dei videogiochi arcade. Analizziamola insieme:
A una prima occhiata salta subito all’occhio che i pin inerenti alle masse (GND) sono posizionati agli estremi del pettine. Il pin 10 che si occupa del segnale audio mostra che si tratta di uno standard che prevede l’audio Mono, mentre dal punto di vista grafico abbiamo i pin 12-13-14 che prevedono un’uscita RGB. Lo standard prevede due giocatori e, in tutto, abbiamo la levetta direzionale rappresentata dai pin 18-19-20-21 e i tre pulsanti collegati sui pin 22-23-24 (Light – Medium e Heavy Punch). Se pensiamo ai giochi moderni ma anche ai giochi anni ’90 un po’ più avanzati, tenendo conto che lo standard JAMMA divenne popolare proprio nei primi anni ’90, capiamo immediatamente che si tratta di uno di quei casi in cui qualcosa diventa obsoleto quasi ancora prima di uscire. Questo accadde perché, nel frattempo, gli sviluppatori di videogiochi iniziarono a fare titoli sempre più complessi dal punto di vista delle mosse e delle azioni che era possibile compiere attraverso i controlli I/O.
La prima azienda a richiedere l’evoluzione dell’iniziale standard JAMMA è stata la Capcom con il celeberrimo Street Fighter II. Sì, perché questo tipo di titoli (generalmente picchiaduro), richiedevano tre tasti in più per poter essere utilizzati. Oltre ai tre pulsanti Light – Medium e Heavy Punch che, come dice il nome, si occupavano del controllo dei pugni, venne aggiunta un’altra terna di pulsanti chiamati Kick Harness (foto sotto). L’esecuzione di questa operazione era possibile direttamente “On board” sulla scheda di gioco, dove attraverso un connettore poteva essere aggiunto un cablaggio direttamente in pulsantiera per collegare gli altri tre pulsanti, disponendo quindi di 6 in tutto. In questo modo, le limitazioni del JAMMA potevano essere aggirate.
Un elemento che le persone poco esperte tendono a sottovalutare è quello inerente al numero dei pin. Abbiamo detto che lo standard JAMMA ne prevede 28, ma questo non vuol dire che un connettore da 28 pin sia necessariamente un JAMMA. La prima cosa da valutare è, assolutamente, la posizione dei pin GND. Se sono posizionati ai due estremi del connettore, quasi sicuramente si tratta di un JAMMA. Se vi capita di lavorare su componentistica di quegli anni, fate sempre un controllo inerente al posizionamento delle masse e delle alimentazioni, perché collegare sul connettore JAMMA una scheda che non appartiene allo standard, equivale a bruciarla.
Curiosità
Il perfezionamento dello standard JAMMA permise la costruzione di cabinati “universali”, consentendo a noleggiatori e gestori di sale giochi notevolissimi risparmi rispetto al passato. Era sufficiente comprare un mobile arcade e, di volta in volta, sostituire solo e unicamente la scheda gioco. Chiaramente, nonostante la riduzione dei costi di gestione, la pirateria non solo andò avanti, ma esplose letteralmente: una scheda gioco costava anche 2 milioni di vecchie lire e, la possibilità di avere delle schede clonate (bootleg) permetteva un risparmio anche del 50%. Addirittura si arrivò al punto in cui al momento dell’uscita di un nuovo gioco, il relativo clone stava già girando da qualche giorno nelle sale. Questo costrinse le aziende a studiare delle contromisure per evitare di finire in bancarotta.
Ovviamente dopo il JAMMA arrivarono anche altre interfacce, ma questa è un’altra storia.
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