La rivoluzione digitale della fotografia è iniziata nel 1969, con l’invenzione del sensore CCD, «charge-coupled device» (o DAC, «dispositivo ad accoppiamento di carica»), che ha mandato in disuso la pellicola.
Oggi i CCD sono ordinariamente utilizzati in campo medico per visualizzare l’interno del corpo umano, sia a scopo diagnostico, nell’endoscopia, sia nella microchirurgia; sono indispensabili nei laboratori di microscopia e sono divenuti componenti essenziali dei telescopi e della strumentazione di bordo delle sonde spaziali. I CCD (L’occhio elettronico del telescopio spaziale Kepler, lanciato nel 2009 alla ricerca di pianeti extrasolari, è un mosaico di CCD) sono impiegati anche nelle comuni macchine fotografiche, nelle videocamere e nelle webcam, ma negli ultimi anni, nei dispositivi elettronici di largo consumo, sono stati sopravanzati dai sensori di immagini indicati con la sigla CMOS, che costano meno e consumano meno energia (un CMOS, invece, il sensore che si trova sotto le lenti dell’obiettivo nella fotocamera posteriore e in quella anteriore degli smartphone.).
Un CCD è un circuito integrato costruito su una superficie di silicio e consiste in una disposizione ordinata di milioni di fotocellule (simili a quelle dei pannelli fotovoltaici) di dimensioni microscopiche. Ciascuna di queste unità costituisce un pixel.
Quando un pixel viene colpito dalla luce, dalla sottostante superficie di silicio si libera un numero di elettroni direttamente proporzionale all’energia luminosa in ingresso. Tali elettroni, divenuti mobili, restano tuttavia entro i confini del pixel.
Ogni pixel, quindi, è come una scatola, che si riempie di elettroni in proporzione alla quantità di luce che vi cade sopra. Il diagramma sottostante mostra come si fa a contare gli elettroni contenuti in ciascuna scatola. Se si applica nel modo opportuno una forza elettrica esterna, le scatole di ogni colonna trasferiscono il proprio contenuto nelle scatole della colonna vicina. L’ultima colonna è una specie di nastro trasportatore: un’altra forza elettrica esterna fa sì che ogni scatola posta sul nastro si svuoti nella scatola che sta davanti e, infine, nella scatola di uscita. Così, per esempio, un insieme di 1000 × 1000 pixel diventa una catena lunga 1 megapixel (un milione di pixel).
Questo processo trasforma l’immagine luminosa catturata dalle fotocellule del CCD in un segnale elettrico, successivamente codificato in forma digitale (mediante cifre 0 e 1). Il CCD produce un’immagine in bianco e nero. Per distinguere tra i diversi colori è necessario porre un filtro su ogni fotocellula.
Anche il CMOS è fatto di fotocellule di silicio e ha bisogno di filtri per vedere a colori. Tuttavia, mentre le cariche raccolte dai pixel di un CCD marciano in fila fino al luogo in cui vengono misurate, in un CMOS ogni pixel è letto sul posto.
Poiché accanto a tutti i pixel del CMOS c’è una piccola struttura che decifra il segnale elettrico, la superficie di questo dispositivo non è interamente sensibile alla luce, ma presenta delle zone cieche. Inoltre il CMOS, rispetto al CCD, genera più rumore, ovvero variazioni casuali del segnale che confondono l’immagine quando la luce è debole. Per le applicazioni più avanzate si preferisce quindi il CCD perché fornisce immagini di migliore qualità.